Lettere dal fronte #3
Buona domenica e buone feste a tutti.
Come al solito, ecco una carrellata di articoli e contenuti che questa settimana hanno attratto la mia attenzione.
I musicisti fanno pochi soldi con Spotify? Non tutti. Ted Gioia ci spiega come artisti senza nome e senza volto, spesso situati nei pressi della sede svedese di Spotify, vengano proposti nelle playlist editoriali e facciano più ascolti anche di chi arriva a vincere un Grammy. L’ennesima riflessione su un fenomeno che peggiora radicalmente il sistema musicale con il benestare della comunità.
Argomento che continua in questo post di Damon Krukowski, il cui Substack è centro di parecchie discussioni interessanti intorno allo stato dell’industria musicale americana di oggi. Non sono un fan del sistema playlistocentrico favorito da Spotify. In molti casi non è come ascoltare una selezione, editoriale o meno, come in radio, ma affidarsi con noncuranza a processi di selezione non totalmente a favore dell’ascoltatore. L’algoritmo conosce logiche che il pubblico non sa. Se amate la musica non ascoltate le playlist di Spotify.
L’Academy Music Group è uno dei maggiori proprietari di sale da concerti in UK, quelle che per dimensioni sono il campo di battaglia necessario per qualsiasi band o artista sulla strada per l’indipendenza economica ed artistica.
In molte delle loro sale chiedono il 25% sui profitti relativi al merchandising venduto durante la serata.
La vendita del merch è l’ultimo margine di guadagno diretto su cui gli artisti possono contare in un’era post-streaming e post-covid ed ora, nel più importante circuito britannico, si ritrovano a dover dare una parte sostanziosa dei loro guadagni non solo alla AMG ma, secondo indagini del Guardian, anche alla Universal Music Group, una delle 3 più grandi etichette discografiche del mondo.
Incrementare i guadagni sulle spalle degli artisti in questo momento storico è immorale, eppure ci ritroviamo davanti l’ennesimo fenomeno che va a danneggiare solo loro, senza che nessuno batta ciglio.
La comunità musicale vive di pari responsabilità tra artisti, figure di mediazione e pubblico. È quanto mai necessaria una presa di coscienza anche di quest’ultimo. Ma una comunità non può vivere e prosperare sotto le sole logiche del consumo passivo, incapace di problematizzare le pratiche di un’industria sempre meno equa.
E’ Pasqua e volete riconnettervi con le origini mediorientali dell’anima della festa? Ecco a voi una interessante compilation di musica elettronica composta da artisti iraniani, sia figli della diaspora che locali, per far ballare i parenti o chi vi pare a voi.
Trovo interessanti certe operazioni perché non so mai cosa aspettarmi, ed è utile allargare lo sguardo per trovare possibili e singolari elaborazioni di sonorità che ormai diamo per scontate.
Il disco più chiacchierato del mese è sicuramente l'omonimo delle Wet Leg.
È come una filastrocca: non è divertente, poi lo è, poi non più. È un valore anche questo.
Visto che ormai sono un grande fan di Utopia, mi sono procurato una copia della loro bellissima edizione di Entronauti di Piero Scanziani, pubblicato originariamente nel 1969 e registro di una sua serie di viaggi per il Mondo alla ricerca dei grandi navigatori dell’interiorità. In un mondo ormai proiettato alla scoperta del cosmo, Scanziani parte dal presupposto che le risposte andrebbero cercate in noi stessi. Affrontando il grande rimosso di un Occidente ormai devoto al consumo, la paura della morte, Entronauti è un'avventura spinta da un desiderio impossibile, al limite dell’infantile, ma quanto mai presente da qualche parte dentro di noi: il voler vivere per sempre.