Disclaimer: è sempre difficile districarsi tra le etichette dei generi e rimanere completamente coerenti nella selezione. Non esiste uno statuto ontologico dei generi, né un criterio unico per definirli: di solito raggruppiamo insieme artisti che hanno sonorità simili o che provengono dallo stesso luogo (e ciò li identifica) oppure dal modo con cui si approcciano al processo di registrazione/distribuzione della loro musica. In linea di massima, oltre alle questioni prettamente formali, il genere esiste nel momento in cui viene riconosciuto dal pubblico a cui si rivolge. Per la compilazione delle playlist de LCS dovrò necessariamente compiere alcune scelte puramente arbitrarie.
Disclaimer 2: le playlist e relativi articoli sono in continuo aggiornamento. Se vi interessa il genere vi consiglio di seguirli, così da non perdere nuove aggiunte o nuovi contenuti.
Sotto l’etichetta indie folk possiamo far rientrare musica proveniente da decenni e luoghi diversi. Cosa accomuna i Neutral Milk Hotel a Bon Iver? I Mountain Goats a Julie Byrne?
Innanzitutto l’affidarsi alla grammatica di base del folk, quindi utilizzo frequente di strumenti acustici, di chitarre con accordature aperte o un approccio di scrittura tipico del songwriting scolpito nel pop da gente come Bob Dylan, Nick Drake e via dicendo.
La componente indie, termine ormai piuttosto vago e fraintendibile, nasce prima come modus operandi legato ai metodi di produzione e di distribuzione indipendenti tra gli anni ‘80 e ‘90 e si consolida dunque come criterio etico, per poi diventare estetico. Un approccio sonoro, un serbatoio di stili e temi per il pop.
Per generi che si sviluppano e si ramificano nel corso dei decenni è difficile e probabilmente inutile fare un censimento di cosa rientri nel canone e cosa no.
In linea di massima, oltre ad artisti universalmente riconosciuti nel filone Indie Folk, mi sono concesso di includere artisti che non sempre sono immediatamente riconducibili a certe sonorità ma che spiritualmente ho sempre percepito come vicini ad esse.
Oltre ai link della playlist su Spotify e Tidal, mi soffermerò a commentare alcune scelte, inserire articoli o materiale che ho trovato bello e utile per accompagnarne la fruizione.
Perché Nick Drake?
Largamente incompreso ai tempi della sua uscita, Pink Moon è diventato nei decenni successivi una sorta di santino per i cantautori indipendenti. L’approccio minimale agli arrangiamenti (solo voce e chitarra, a parte qualche nota di piano nella title track), in controtendenza rispetto alle orchestrazioni più strutturate dei dischi dell’epoca, e il voler dar spazio alla propria voce intima a prescindere dai canoni contemporanei sono ingredienti base di molti degli artisti presenti in questa playlist. Inserire Nick Drake è rintracciare nelle esperienze musicali dei decenni precedenti un padre spirituale e artistico in un sistema musicale diverso, dove l’essere indipendenti non esisteva nelle forme che intendiamo oggi.
Olanda, 1945.
In the Aeroplane Over the Sea dei Neutral Milk Hotel è uno dei miei dischi preferiti, quindi gli dedicherò uno spazio maggiore in futuro. Nel frattempo vi consiglio “Olanda, 1945” di Massimo Palma (edito da Nottetempo), che prova a farci orientare nelle numerose stanze interpretative di un disco che non smette mai di stimolare l’ascoltatore e di farlo confrontare con i fantasmi che vi abitano.
Inserire un brano dei Mojave 3 (3/5 di Slowdive) mi da l’opportunità di allegare questo articolo su In Love with a View di Federico Sardo per Bastonate di circa sei anni fa. E’ un blog che ho adorato ed è uno dei luoghi del web che mi ha ispirato a volerne creare uno mio.
Excuses for Travellers è un disco meraviglioso, un momento di sosta per guarire dalle fatiche del viaggio.
Perché John Frusciante?
Potrebbe sembrare fuori luogo inserire in una playlist indie folk uno dei chitarristi rock più famosi di sempre. Ma lo spirito che accompagna molti dei dischi solisti di Frusciante, lo stesso che lo ha portato più volte a cercare percorsi espressivi esterni rispetto ai RHCP, sia per sonorità che per metodi di produzione/distribuzione, ha trovato la sua migliore incarnazione nel cantautorato malinconico di Curtains. Pochi ingredienti, essenziali, per far uscire al meglio le canzoni scritte su una chitarra acustica. Siamo così lontani dalle premesse iniziali della playlist? Secondo me no.
L’effetto cosplay.
Quando si decide di adottare strettamente i codici estetici di un genere che ha visto il proprio sviluppo molti anni prima, può succedere si rischi l’effetto cosplay. E’ una scelta toglie un po’ di genuinità alla proposta, quella di presentarsi come qualcuno che ha skippato gli ultimi 30 anni. Contemporaneamente all’esordio dei Mumford & Sons, maestri di questo fenomeno, nel 2009 esce This Empty Northern Hemisphere di Gregory Alan Isakov e il rischio è un po’ lo stesso. Per fortuna la scrittura del cantautore nato in Sudafrica è così forte che i pezzi sopravvivono anche a certi manierismi di troppo. Non un capolavoro, ma un disco su cui continuo a ritornare.
The Tallest Man on Earth x Pitchfork - City of Music.
Nella playlist ho messo la versione originale di questo brano dal disco “There’s No Leaving Now”, il mio preferito pubblicato dall’artista svedese, ma ho sempre adorato il video dell’esibizione per City of Music sul canale di Pitchfork.
Elliott Smith & Sons.
Elliott Smith è stato un cantautore prettamente metropolitano. Cambiando lo scenario cambiano i suoni, le cause di alienazione, ma i temi di motivi di fondo restano quelli. Los Angeles è lo sfondo tipico delle canzoni di Smith e la città è così presente da essere elemento di scarto rispetto alla norma del genere. Ma un po’ come Nick Drake, con cui condivide talento e morte precoce, è diventato la figura di riferimento per tutta una serie di cantautori urbani che seduti sulle sue spalle sono riusciti ad attingere dal suo repertorio, declinandolo a modo proprio. Se Phoebe Bridgers, la superstar indie più affermata del momento, è stata colei che ha tributato Smith in modo più palese, dedicandogli la titletrack del suo ultimo disco “Punisher”, alcuni aspetti fondamentali della produzione di pezzi come Between the Bars hanno fatto scuola per cantautori presenti nella playlist come per Conor Oberst e i suoi Bright Eyes, Christian Lee Hutson e il Sufjan Stevens più minimale, come il modo in cui è inserita nel mix la voce, in primissimo piano ma sussurrata, incorniciata tra arpeggi delicati e amari, come se fosse un flusso di coscienza, un dialogo interno, una confessione troppo vera per esser declamata ad alta voce. Secondo me è un elemento di continuità con il nostro punto di partenza, Pink Moon, in uno scenario musicale e umano che però è già mutato.
Mi prendo il solito spazio per ricordare che Twin Peaks - The Return è il miglior prodotto audiovisivo di sempre, mettendovi il link dell’esibizione di Tarifa di Sharon Van Etten in conclusione del sesto episodio. Gli ultimi, ottimi, dischi della cantautrice americana vanno in altre direzioni sonore, ma gli esordi e Are We There, disco che contiene il brano in questione, rimane il mio preferito della sua discografia.
Carrie & Lowell è uno dei miei dischi preferiti e scegliere un solo brano da inserire in playlist non rende giustizia al racconto del disco. Nel 2017 è stato pubblicato l’officiai film di concerto dove Sufjan Stevens riprende per intero il disco. Ho in lavorazione da mesi ormai un articolo specifico su C&L, che però continuo a rimandare perché ascoltarlo mi spezza in due e sono costretto ad affrontarlo poco alla volta.
Non ho capito in fondo questo pezzo dei Big Thief finché non l’ho ascoltato in questa versione live presso The Bunker Studio, dove il gruppo sembra perfettamente tarato tra tecnica e cuore, caos e controllo.